Istintivamente nessuno assocerebbe la carotide al sonno, ma se poi si pensa alla rapida perdita di coscienza che provoca la sua compressione ecco che il legame appare evidente. Del resto, l’origine delle parole non mente mai e infatti “carotide” deriva dal greco “karos”, che significa “sopore con immobilità” perché gli antichi credevano che in questa sede fosse il centro del sonno. Le arterie carotidi decorrono lateralmente nel collo e – dopo un primo tratto definito carotide comune – si dividono in carotide esterna – che vascolarizza faccia, lingua, bocca, scalpo, laringe e faringe – e carotide interna – che porta il sangue al cervello. Il punto in cui avviene la biforcazione tra carotide interna ed esterna è la sede più a rischio di aterosclerosi, per motivi principalmente emodinamici. Le placche ateromasiche, composte in particolare da grasso (lipidi, colesterolo), calcio, cellule morte, cellule infiammatorie, piccoli vasi sanguigni, portano infatti al progressivo restringimento del lume dell’arteria (stenosi). Una stenosi serrata delle carotidi può causare un riduzione dell’ apporto di sangue al cervello, ma, fortunatamente, il circolo cerebrale è supportato anche da altre importanti arterie, le arterie vertebrali. Attraverso il poligono di Willis , alla base del cranio, carotidi e vertebrali confluiscono tra loro, in modo tale che l’ ostruzione di uno dei vasi principali possa essere compensata dagli altri.
Quando la placca carotidea cresce al punto tale da alterare il flusso sanguigno – quando diventa cioè “emodinamicamente significativa” – si crea una accelerazione del flusso, con conseguente erosione e frammentazione della superficie della placca. I frammenti che si staccano dalla superficie possono andare ad occludere le arterie terminali del cervello, provocando l’ictus (o stroke). Lo stroke può essere massivo, anche letale, oppure localizzato, con effetti permanenti o reversibili, sulla base dell’entità e del tipo delle aree cerebrali colpite. Gli stroke reversibili sono chiamati TIA (transient ischaemic attacks): regrediscono entro qualche ora e sono solitamente un campanello di allarme molto importante che, se non correttamente interpretato e trattato, può essere seguito in breve tempo da un vero e proprio ictus. I sintomi che si verificano più frequentemente sono: paralisi o perdita di forza ad un braccio o ad una gamba, perdita improvvisa della vista da un occhio, incapacità di eloquio adeguato.
Diagnosi e Trattamento
Una percentuale che va dal 20-50% dei TIA è dovuta alla patologia carotidea, motivo per cui è necessario sottoporsi a quegli esami in grado di riscontrare immediatamente la presenza di una placca a livello della carotide, la morfologia ed il grado di stenosi, espresso di solito sotto forma di riduzione percentuale del diametro. L’esame più indicato è l’ecocolordoppler delle carotidi, veloce e non invasivo. Il trattamento può essere chirurgico (endoarterectomia) o medico (terapia antiaggregante). Studi multicentrici randomizzati hanno evidenziato che nei pazienti asintomatici, cioè che non hanno manifestato nessuno dei sintomi neurologici descritti sopra, il trattamento chirurgico è indicato quando la stenosi supera il 70-75%. Pazienti che abbiano accusato sintomi neurologici devono invece essere trattati anche in presenza di stenosi meno importanti. Questo è uno schema di base, ma la corretta indicazione al trattamento è compito esclusivo dello specialista, sulla base della valutazione di ogni singolo paziente, tenuto conto di molteplici fattori, come il tipo di placca, la eventuale concomitanza di altre patologie, le condizioni fisiche e psichiche.
Il trattamento chirurgico può essere eseguito in anestesia generale o locoregionale e consiste nella rimozione completa della placca della carotide. Questo intervento, per quanto oggi possa essere eseguito con rischi operatori maggiori complessivamente bassi (nell’ordine dell’1-2%), è comunque un intervento estremamente delicato. Nei pazienti ad alto rischio chirurgico si può eseguire un intervento in anestesia locale, sotto controllo radiologico, per posizionare uno stent (reticella metallica cilindrica) all’interno della carotide attraverso la puntura dell’arteria femorale all’altezza dell’inguine.
Il rischio di recidiva è estremamente basso ed una eventuale ristenosi non ha il rischio di frammentazione della placca primitiva. E’ comunque opportuno fare periodici controlli post-operatori con l’ecodoppler.